Non è affatto semplice tornare sulla scena del delitto dopo solo qualche mese dopo che la mostra Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, ha chiuso i battenti. Ciò nonostante, quello che forse si può fare, per affrontare meglio questa seconda vita di Re-cycle all’interno del progetto di ricerca PRIN, è una specie di autorecensione o meglio una prima valutazione del reale impatto della mostra. In questo caso penso valga la pena scrivere questo testo per due ragioni specifiche. La prima è molto introspettiva, e corrisponde ad una prima opportunità di considerare e valutare il lavoro che abbiamo fatto, approfittando della accettabile “distanza critica” che si è ormai creata. La seconda è invece basata sull’occasione di mettere a fuoco le reazioni provocate dalla mostra nel pubblico, sia quello generale che quello più specializzato. Visto quindi che cominciamo con questa ricerca un secondo percorso di riciclo, vediamo qual è l’eredità che ci è rimasta del primo.
Dal punto di vista puro e semplice dalla programmazione del museo Re-cycle è stata considerata un successo Europa e in Italia. Ma ciò che ci ha gratificato è stato non solo il numero di persone che sono venute a vedere la mostra, ma soprattutto la sua capacità di stimolare la discussione su alcuni temi oggi particolarmente sorprendente. Ha attratto molti visitatori e ha notevolmente aiutato il museo a chiarire identità e ambizioni in una fase molto difficile per le istituzioni culturali del mondo occidentale, specialmente in rilevanti, rompendo quel senso di autoreferenzialità e isolamento che l’architettura si porta dietro in Italia. Durante i cinque mesi dell’esposizione il museo è diventato uno spazio molto vivace di confronto e dialogo tra architetti, fotografi, designer urbani, artisti, attivisti, urbanisti, ecologisti, educatori; il concetto di riciclo ha dimostrato funzionare molto bene sia come dispositivo mirato a trovare un punto di vista nuovo sulla teoria dell’architettura, aperta a relazioni e questioni che arrivano dal mondo esterno, sia come un antidoto molto efficace al rischio di ritorni avventurosi di Autonomia.
Due aspetti della mostra sono stati fondamentali alla definizione di una piattaforma di dialogo così ampia. Il primo è il gruppo di ricerca, che ha coinvolto Reiner De Graaf, Sara Marini, Mosè Ricci, Philippe Vassal e Paola Viganò, che hanno lavorato ampiamente come consulenti attivi del team curatoriale nei due anni di preparazione alla mostra, permettendo un vero e proprio sondaggio mondiale del fenomeno. Il secondo è la scelta di completare la mostra con un libro piuttosto che un catalogo, ideando una pubblicazione che può vivere e provocare un dibattito anche dopo la chiusura della mostra.
Abbiamo anche provato a coniugare il carattere multidisciplinare con i principali aspetti della missione istituzionale del museo, come la promozione dell’innovazione e la qualità nell’architettura italiana contemporanea. Almeno due dei progettisti italiani invitati alla mostra, tra i circa cinquanta team internazionali, hanno vinto premi e gare importanti nei mesi successivi a Re-cycle: Maria Giuseppina Grasso Cannizzo è stata premiata con un premio RIBA e Elisabetta Terragni è stata in grado di portare avanti un interessante e radicalmente innovativo progetto di rigenerazione in un’isola militare in Albania, un caso di riciclo davvero interessante. Una volta appreso che il bilancio finale della mostra è stato ampiamente positivo dal punto di vista del museo, penso sarebbe più interessante – nonché più problematico – spostare la discussione al livello leggermente più alto presente nel progetto curatoriale, in relazione ai suoi contenuti concettuali e alle sue liaisons con i nodi della ricerca teorica e del dibattito sull’architettura contemporanea. Quando abbiamo lavorato al progetto della mostra eravamo ovviamente coscienti della particolare epoca architettonica che stiamo vivendo: alla fase terminale di una lunga age d’or del design iperspettacolare, dove convivono sia l’ansiosa caccia da parte degli architetti di prima fila di nuovi mercati e nuove immagini da consumare, sia la ricerca, da parte di tutti gli altri, di paradigmi e strumenti in grado di mantenerci al passo con i cambiamenti che invadono tutti gli altri aspetti delle nostre vite. Per essere in grado di contribuire a questa discussione, incombente e tuttavia non chiaramente definita, il sottotesto della mostra si focalizzava su alcuni temi cruciali, che descriverò brevemente nella seconda parte di questo testo.
La prima “proprietà” del riciclo che avevamo intenzione di affrontare ha a che fare il concetto di scala. Una delle caratteristiche più forti della strategia di Re-cycle è la sua totale indifferenza alla scala. Re-cycle è perfettamente scaleless: funziona sia nella città che nel design di paesaggio, ha a che fare con corpi architettonici dal molto grande al molto piccolo; investe sia gli spazi che gli oggetti che i materiali.
Il riciclo è una chiave di accesso molto efficace per chiarire come alcuni temi cruciali del progetto contemporaneo attraversino continuamente e senza difficoltà i confini tra le varie discipline relative al design e allo spazio. E allo stesso tempo si dimostra un buon mezzo per provare a gestire tali contenuti con gli strumenti che le nostre discipline ci mettono a disposizione, se non piuttosto per allargare le stesse in modo da per poterli comprendere.
Ha funzionato quest’operazione? Non lo so, ma in qualche modo il messaggio nella bottiglia ha raggiunto una riva da qualche parte: quando la mostra ha aperto è entrata in risonanza, sia in Italia che all’estero, con un’accelerazione vertiginosa dell’organizzazione di seminari, simposi, workshop, ecc. focalizzati sul tema del riciclo, di volta in volta promossi da urbanisti, architetti di paesaggio, designer urbani, designer industriali, ecc. Alcuni di loro hanno avuto un serio approccio transdisciplinare e rappresentano un buon inizio per elaborazioni future. Alcuni convergono felicemente nella ricerca PRIN che stiamo conducendo.
Il secondo aspetto della mostra aveva come obiettivo quello di investigare l’uso estenuante della questione della sostenibilità nel contesto architettonico. Dopo un decennio di confusione tra la vera urgenza realmente ecologica e il marketing del “green-glam” design, Re-cycle intende riportare l’approccio degli architetti alla sostenibilità in un campo in cui il design e le scienze ambientali possono assumere il loro ruolo senza erodere il rispettivo potenziale. In parole povere, finora l’impressione è che gli architetti abbiano preso coscienza della sostenibilità come un prezzo da pagare in termini di correttezza ecologica a scapito del potenziale e dell’integrità del design. Il “livello di difficoltà” sembra lo stesso di quello delle gare di tuffi, in cui la mancanza d’integrità (dunque la bellezza) della performance può essere, però, compensata dalla complessità tecnica. Con Re-cycle abbiamo provato a ribaltare questa condizione, invitando gli architetti a considerare un approccio non ortodosso alla “costruzione” (o alla “non costruzione”) come una pratica architettonica sofisticata, dotandola di abbondante zeitgeist, alto valore teorico e di infinita capacità espressiva. Abbiamo chiesto agli ecologisti di prendere in considerazione questa proposta, e di non fare l’errore di considerare la ricerca figurativa scaturita dai progetti di Re-cycle solo come un’altra forma di arroganza architettonica. Viceversa dovrebbe essere considerata come un tentativo di esplorare la profondità e le potenzialità del problema (l’edificio esistente) attraverso un più alto livello di complessità interdisciplinare e l’ambizione ad una trasformazione virtuale dello spazio. Questo secondo punto, e la difficoltà di renderlo chiaro e farlo accettare, porta velocemente al terzo e più ambizioso obiettivo del nostro lavoro: codificare il valore teorico di Re-cycle come uno strumento intrinsecamente capace di fare da “ponte” tra due lati opposti del pensiero architettonico, quello progressivo/progressista e concettuale e quello pragmatico (ecologico).
Per concettuale intendiamo architetture alle quali si associano termini come “parassita”, “stratificato”, “informale”, “non-autoriale”, e con pragmatico pensiamo invece alla prevalenza di: programma, rigenerazione, spazio pubblico, ecologia, filosofia “0”, ecc. E come “ponte” pensiamo alla possibilità di trasformare questo dialogo in una strategia di design. Il nostro punto, seppure leggermente mimetizzato per evitare di offendere le reciproche sensibilità delle due parti, è sovrapporre il Cannaregio di Peter Eisenman a Plus di Lacaton and Vassal e alle Gallerie di Trento di Terragni per investigare possibili risonanze e, attraverso di esse, definire un nuovo spazio architettonico per il tempo che verrà.
Questo spazio ci permetterebbe anche di saltare immediatamente oltre le trappole del dibattito contemporaneo sul moderno e postmoderno, sebbene confermiamo di trovarci ovviamente il più lontano possibile dal dogma della tabula rasa.
In questo senso il lavoro è appena iniziato e dovrà continuare spedito in questa ricerca. È stato importante aver potuto discutere queste problematiche con vari tipi di pubblico, sia in Italia che all’estero, dopo la mostra. È stato inoltre importante ricevere contributi da autori come Tony Vidler, Sylvia Lavin, Eduardo Cadava e molti altri che ci hanno aiutato in questa impervia esplorazione.