“Un istante dopo, Alice scivolava giù correndogli appresso, senza pensare a come avrebbe fatto poi per uscirne. La buca della conigliera filava dritta come una galleria, e poi si sprofondava così improvvisamente che Alice non ebbe un solo istante l’idea di fermarsi: si sentì cader giù rotoloni in una specie di precipizio che rassomigliava a un pozzo profondissimo. Una delle due: o il pozzo era straordinariamente profondo o ella ruzzolava giù con grande lentezza, perché ebbe tempo, cadendo, di guardarsi intorno e di pensar meravigliata alle conseguenze. Aguzzò gli occhi, e cercò di fissare il fondo, per scoprire qualche cosa; ma in fondo era buio pesto e non si scopriva nulla. Guardò le pareti del pozzo e s’accorse che erano rivestite di scaffali di biblioteche; e sparse qua e là di mappe e quadri, sospesi a chiodi. Mentre continuava a scivolare, afferrò un barattolo con un’etichetta, lesse l’etichetta: «Marmellata d’Arance» ma, oimè! con sua gran delusione, era vuoto (…).E giù, e giù, e giù! Non finiva mai quella caduta? – Chi sa quante miglia ho fatte a quest’ora? – esclamò Alice. – Forse sto per toccare il centro della terra. Già saranno più di quattrocento miglia di profondità. (…) ma vorrei sapere a qual grado di latitudine o di longitudine sono arrivata. (…) Forse traverso la terra! E se dovessi uscire fra quelli che camminano a capo in giù! (…) – E sempre giù, e sempre giù, e sempre giù! (…) quando, patapunfete! si trovò a un tratto su un mucchio di frasche e la caduta cessò. Non s’era fatta male e saltò in piedi, svelta”.
Perché mai compare qui l’Alice di Lewis Carroll con tutto il suo carico di esilarante non-sense ? – vi chiederete. La risposta è delle più banali: il solerte editor di questo libro ha usato Alice come “testo riempitivo”, in attesa della consegna del mio testo effettivo. Ma a me è sembrato subito che il caso mi offrisse una splendida occasione di riciclo letterario quale incipit del mio testo.
(Mi è capitato appena pochi giorni fa, altrettanto casualmente, di citare – durante un dibattito all’Iuav con Nicola Emery – il non-sense di Lewis Carroll o di Edward Lear come un possibile esempio di paradossale fantasioso “senso delle cose”, accostandolo ai fenomenali procedimenti creativi proposti da Gianni Rodari nella sua Grammatica della fantasia.)
Si tratta di un esempio banale di procedimento creativo (o meglio ancora ri-creativo) di ri-ciclo, che è esattamente ciò che cerca la nostra ricerca: non certo riciclare per usare a tutti i costi gli scarti dei processi produttivi capitalistici o dei loro esiti edilizio-territoriali, con afflato ecologico-buonista; ma riciclare semmai per dare nuovo senso, nuova vita, a quelli – fra gli innumerevoli scarti – che possono servirci a disegnare appunto nuovi orizzonti di senso, sovrascrivendo , anche con un tocco di ludica ironia, il palinsesto dell’esistente patrimonio di “cianfrusaglie” (rubo il termine alla splendida Szymborska, spero mi perdonerà).
Ma torniamo allora ad Alice: precipita da una conigliera in una specie di pozzo che attraversa il globo terracqueo, in un vero e proprio viaggio geologico – traversandolo come un neutrino dentro un tunnel verso il Gran Sasso (mi perdoni Maria Stella Gelmini) – e, vedi caso, sfila davanti a un’immensa biblioteca-pinacoteca borgesiana, quasi a cibarsi di tutto il sapere umano, e agli antipodi (il mondo capovolto non è forse la città inversa di cui continuiamo a parlare, il rovesciamento d’ottica che predichiamo per dare un nome nuovo alle vecchie cianfrusaglie riciclate?) atterra su un mucchio di frasche senza farsi miracolosamente alcun male, più vispa che mai e pronta a visitare il paese delle meraviglie.
Provate a mettere il Veneto al posto del globo terracqueo, il “carotaggio” citato più sopra da Caldarola al posto del pozzo, i luoghi del welfare di Maria Chiara Tosi al posto dell’immensa biblioteca-pinacoteca, e al posto della squisita marmellata d’arance un cespo di radicchio trevigiano e un bicchiere di prosecco – poi magari, invece di volare giù, provate a pedalare su una bicicletta lungo il Piave, il Bacchiglione o il Marzenego – e… dalla conigliera della città diffusa potrete atterrare sani e salvi in una rediviva Venezia, piena di factories creative, oltre che di conigli bianchi. Il sogno è servito.
… Già! le factories vanno assai di moda, a rappresentare l’unica vera forza vitale rimasta probabilmente al vecchio stanco continente Europa e ancor più all’Italia: la nostra residua energia creativa, in nome e per conto di quelle start up cui si affidano le speranze di futuro delle giovani generazioni. Start up sta in fondo assai vicino al concetto di “nuovi cicli di vita” che insegue la nostra ricerca: è in questa spinta che la tanto decantata (nel senso del celebrare), ma ormai altrettanto decantata (nel senso della decantazione), economia sommersa dei territori del Nord Est sta cercando il suo riscatto.
Il tessuto produttivo che “tiene”, negli anni della crisi, è quello che si ricicla e si reinventa fondandosi su tale creatività o ri-creatività, che talvolta può sembrare talmente capovolta e azzardata da apparire addirittura insensata quanto la storia di Alice.
(Di nuovo riecheggia la stretta consonanza del binomio creativo-ricreativo sollecitatami dall’ascolto di una lezione a proposito di teorie del riciclo tenuta a Venezia da Nicola Emery, in cui chiosava un aureo libretto, “Filosofia del rotto”, scritto nel 1924 dal tedesco Alfred Sohn-Rethel ad elogio dell’”arte dell’arrangiarsi” dei Napoletani: “per il Napoletano – scriveva Sohn-Rethel – l’essenza della tecnica sta nella messa in funzione del rotto. Nel trattamento dei macchinari difettosi egli è assolutamente sovrano e va ben al di là di ogni tecnica. Per la sua abilità di bricolage e per la prontezza di spirito con la quale spesso dinanzi a un pericolo riesce, con irrisoria semplicità, a ricavare da un difetto un salvifico vantaggio, egli ha più di qualche tratto in comune con l’americano. Ma in lui c’è la suprema ricchezza inventiva del bambino e tutto gli riesce, come al bambino. Come ai bambini, la ruota della fortuna gira volentieri a suo favore”. Nulla di meno tecnico-ingegneristico, bensì di prettamente creativo e in definitiva artistico, dell’italica ”arte di arrangiarsi” – vedasi più sopra le ricerche “di moda” di Lotto su Marzotto o le sofisticate ipotesi circa l’uso degli “archivi dello scarto” in ambiente lagunare di Sissi Roselli, peraltro studiosa per suo conto di un altro maestro d’ironia nella costruzione di visionarie macchine architettoniche, più o meno celibi: parlo di Cedric Price.)
Le start up – dicevo – fanno il paio, in tema di ri-ciclo architettonico, con la manipolazione di manufatti ed aree dismesse o abbandonate a scopo re-inventivo: in molti casi quel fenomeno socio-produttivo, anzi, abita manufatti fisici sottoposti a tale processo ri-generativo, facendo coincidere i due processi. Ma questo fenomeno, nella sua possibile diffusione capillare, sembra preludere anche ad un ruolo strategico-territoriale decisivo per i processi trasformativi del sistema insediativo su larga scala, unendosi alle politiche di rete (di mobilità lenta e di sostegno ad un tessuto produttivo e anche turistico “di prossimità”) che innervano i possibili scenari della Smart Land, ovvero di “quell’ambito territoriale nel quale sperimentare politiche diffuse e condivise orientate ad aumentare la competitività e attrattività del territorio con un’attenzione specifica alla coesione sociale, alla diffusione della conoscenza, alla crescita creativa, all’accessibilità e alla libertà di movimento, alla fruibilità dell’ambiente e alla qualità del paesaggio e della vita dei cittadini” (Aldo Bonomi, “La metamorfosi dei territori”, in: Bonomi A. e Masiero R., Dalla smart city alla smart land , Marsilio, Venezia 2014).
La logica itinerante e “rabdomantica” (vedasi al proposito le “letture in movimento” della memoria profonda dei territori proposte da Mario Maffi nei suoi libri su fiumi e città e per ultimo nel recente Città di memoria, il Saggiatore, Milano 2014) con cui la nostra ricerca ha inteso mappare a mosaico e in prima ipotesi ri-progettare – con particolare attenzione alle potenzialità di un nuovo turismo “locale” – le relazioni territoriali fra rete idrografica, ondulazioni orografiche e arcipelaghi insediativi del Veneto – in primis quello pedemontano – va dunque esplicitamente alla ricerca di un’armatura affatto nuova dei tessuti produttivi e abitativi, che vuol sfruttare in positivo sia la presenza di molte infrastrutture obsolete o abbandonate sia la valorizzazione di telai ben più antichi di strutturazione del territorio, fondati sul suo stesso impianto geografico.
Una rete che è materiale e fisica quanto anche immateriale e virtuale, ma che ambisce comunque a continuare a fondarsi, in nome dell’innovazione e della creatività, sulla conoscenza e la re-interpretazione in chiave storico-geografica degli “strati profondi” di tali terre.
Il ri-ciclo si coniuga perciò strettamente con l’eredità del passato, al di fuori di qualsiasi istanza nostalgica, ma ricercando piuttosto in quell’eredità o “tradizione” germi di futuro, a favore di nuovi cicli di vita, appunto. In tal senso anche le “cianfrusaglie” più o meno inservibili, più o meno affettuosamente conservate – siano esse infrastrutture o edifici dismessi o abbandonati o obsoleti – possono rivelarsi spesso un patrimonio prezioso per il progetto. E’ essenziale tuttavia intuire le potenzialità innovative con cui tale riciclo può essere esercitato, e qui gli scenari o le visioni aperti dalla creatività e dal progetto diventano necessari punti di riferimento.
L’esperienza Ve.net – che origina insieme dalla ricerca Recycle Italy e dal parallelo programma di 8 assegni di ricerca coordinati finanziati dalla Regione Veneto con il Fondo Sociale Europeo – si è voluta strutturare in modo plurale e aperto, offrendosi come una piattaforma dove far confluire e confrontare approcci ed esperienze diverse. Il quadro d’unione realizzato attraverso il grande modello o plastico interpretativo ha restituito del territorio e dei suoi problemi una mappatura non convenzionale e complessa, ma assai ricca di stimoli: una mappatura più vicina forse alle mappe urbane psico-geografiche dei Situazionisti o ad altre consimili “cartografie artistico-creative” dell’arte contemporanea (cfr. in merito l’interessante recente rassegna curata da H.U. Obrist per i tipi di Thames & Hudson nel 2014 al titolo Mapping It Out. An Alternative Atlas of Contemporary Cartographies) o anche alle narrazioni letterarie “rabdomantiche” di Mario Maffi che prima citavo, piuttosto che a una mappa tradizionale o a un semplice collage.
Ma è esattamente questo il “viaggio endoscopico” nel corpo del Veneto che intendevamo intraprendere, giocando la carta difficile di articolare approcci e strumenti differenti, correndo il rischio di dissonanze e disarmonie.
Nel concludere il seminario di confronto tenuto alla Villa Brandolini di Pieve di Soligo a fine-workshop, citavo un bell’articolo appena uscito in quei giorni (28.9.2014) sul Sole 24 ore, a firma di Arnold I.Davidson, intitolato “Dal Jazz una lezione di democrazia”, che individuava acutamente nell’atteggiamento di un ottetto di musicisti jazz (nella fattispecie quello di Steve Lehman) la capacità di mettere in campo “una straordinaria integrazione tra improvvisazione e composizione, tra gli assoli individuali e la performance collettiva” e quindi di offrire una modernissima lezione di democrazia: “una democrazia degli individui invece della solita democrazia di massa”, ove “la coesione ricercata non è quella dell’unità , ma una coesione interattiva, e più fragile, tra delle personalità singolari”. “L’interazione specifica tra questi musicisti – sottolinea Davidson – costituisce un nuovo modello di socialità: la sperimentazione legata alla tradizione non è in contrasto con la socialità.( … ) La più vitale tradizione democratica dovrebbe essere, per citare il titolo del primo disco dell’ottetto di Lehman, un insieme di lavoro, trasformazione e flusso (Travail, Transformation and Flow). Purtroppo, il nostro mondo sociale è spesso il contrario: oziosità, fissità e immobilità. Ci mancano creatività e coraggio. La storia del jazz è piena di creatività e coraggio”.
La metafora jazzistica mi pare molto appropriata al taglio con cui può essere oggi affrontato – nella logica dinamica e creativa dell’”insieme di lavoro, trasformazione e flusso” – il riassetto e il rilancio del patrimonio insediativo-produttivo-storico-geografico del territorio veneto, entro una prospettiva che Bonomi e Masiero, in nome e per conto della Fondazione F.Fabbri, nostro partner nel workshop medesimo, hanno denominato Smart Land, nell’obiettivo di tenere assieme “una parola antica come comunità con l’ipermodernità dell’innovazione e della competizione” e sfruttando gli “esempi di ritorno nei territori dell’abbandono, dello spaesamento, per immettervi saperi, progetti, visioni di un futuro possibile”, coniugando valori connessi con i concetti di “cittadinanza”, “sviluppo”, “energia”, “mobilità”, “economia”, “identità”, “saperi”, “paesaggio”.
Il lavoro corale che abbiamo sperimentalmente tentato di realizzare nel seminario-workshop Ve.net, così come nel più vasto quadro di coordinamento delle relative otto ricerche propiziate dal finanziamento del Fondo Sociale Europeo, ha lavorato con questo spirito, tentando di farne rifluire i provvisori risultati anche in strumenti di comunicazione interattivi orientati a costruire quella sorta di “manuale di progettazione da viaggio” più sopra evocato da Giulia Ciliberto e Irene Guida (cfr. al proposito l’esperimento di rivista elettronica ideato in continuità con tale esperienza da Giulia Ciliberto con l’editore Il Prato, di recente presentato al Salone del Restauro di Ferrara- http://www.progettorecycle.net) .
Il compendio di riflessioni e proposte ottenuto riflette di tale esperimento la complessità ma anche la ricchezza, realizzando infine una performance la cui musica non mi pare affatto sgradevole, nel segno del jazz.