True-topia è un neologismo strano, vagamente cacofonico, ma anche un dispositivo interessante. In due parole riassume molte lingue e un piccolo patrimonio di temi rilevanti per la concezione dell’architettura e dello spazio contemporaneo. Con l’inglese true e con il suffisso–topia, usato in molte lingue dall’Ellade in poi, si delinea infatti un recinto incerto che contiene molte questioni cruciali per l’architettura del nostro tempo. Prima fra tutte evoca la contrapposizione molto fashionable tra chi invoca il bisogno architettonico di Utopia “a prescindere” e chi richiama la necessità di un approccio (neo–neo?) realista. Poi sfiora delicatamente la discussione imperitura sul rapporto con il luogo, per atterrare infine su un meta-discorso tipico del nostro tempo, vale a dire l’annessione dell’ambiguità, quando non del paradosso, tra i valori fondativi del nostro pensiero progettuale.
Utopia
L’Utopia è un’arma da maneggiare con cura nello spazio pubblico e sociale. Se usata con scarsa consapevolezza o “a fini personali” provoca danni gravi, soprattutto in quelle classi alle quali principalmente ci si rivolge come destinatari di un’offerta utopica. L’Utopia assume un ruolo centrale nel discorso politico in momenti molto particolari e paradossalmente opposti della storia, quando il movimento verso il futuro è molto veloce, e quindi richiede alimento continuo, o quando la stasi è totale, e richiede quindi uno shock come alternativa alla disperazione. Per l’architettura dell’ultimo secolo l’Utopia si associa naturalmente con il Moderno, in quanto sintesi di progetto formale e progetto politico, e dialoga a lungo con la tecnologia, considerata dagli anni Sessanta in poi come un’alternativa ‘non violenta’ alla rivoluzione. In quel periodo l’esaurirsi della “spinta propulsiva” del Moderno e la sfiducia verso le utopie realizzate (non a caso chiamate socialismo reale), nell’Est europeo, in Asia e altrove, crea in architettura la ricerca di una varietà di “utopie autonome” (un ossimoro bello e buono), politicamente fallimentari ma certo molto stimolanti dal punto di vista della riflessione, dell’invenzione formale libera da qualsiasi vincolo, della capacità di leggere e inserirsi (fino ad esserne spesso fagocitati) nelle “contraddizioni del capitalismo”. Oggi il desiderio di utopia è forte, stranamente non tanto nel mondo della politica e dell’impegno sociale – diviso tra concretezza da volontariato e distopia da black bloc – quanto in quello delle arti visive.
Come se ci mancassero gli argomenti, come se il richiamo ossessivo all’utopia fosse un kharma capace di interrompere il letargo e liberare energie creative che non riusciamo ad attivare altrimenti. Ma siccome lo scenario politico offre un materiale poco divertente da trasformare in utopia (pannelli solari e orti con le zucchine a piazza del Popolo), e alla tecnologia noi italiani non vogliamo proprio abituarci, allora si finisce per sostituire l’Utopia con il Revival di utopie trascorse, attualizzate con un po’ di cinismo e ancora troppa nostalgia.
Nulla di male. Ogni generazione creativa ha il diritto di andare a cercarsi ispirazioni dove vuole, e di essere cieca e sorda quanto vuole. Ma basta essere chiari, sapere che si tratta di un discorso ri-utopico che non ambisce a cambiare la scena sociale e politica ma solo quella espressiva e concettuale. E riconoscere che non ci interessano gli effetti sul campo di quelle sperimentazioni d’epoca, ma piuttosto il loro impatto comunicativo sulla scena a loro contemporanea.
Truismo
Mi piace l’idea di True-topia perché inserisce in questa versione abbastanza auto-disinnescata di utopia un virus di alterazione, una dose perversa e interessante di realtà. Rispetto alla perfezione consolatoria del disegno “utopico”, è la realtà a inserire un elemento di spiazzamento e sorpresa che non ci consente più di distinguere tra utopismo e realismo. Il collage astratto delle aree della città adriatica messo insieme per questi progetti è un contesto reale e utopico allo stesso tempo. La sua dose di realtà restituisce la materia prima concreta e la sostanza dei problemi della città contemporanea. La sua natura astratta e sperimentale sposta il nostro lavoro sul terreno dell’utopia della città generica e specifica allo stesso tempo, legata allo spazio ma anche e soprattutto al tempo. Il frammento urbano è pura utopia, luogo che non c’è, ed allo stesso tempo è vero più del vero, e terribilmente verosimile.
Recycle
La nostra True-topia nasce nell’ambito della nostra ricerca sul riciclo, e nell’alveo della collaborazione delle undici facoltà e delle varie istituzioni coinvolte nel progetto. Cosa c’entra il riciclo con l’utopia? Secondo noi molto. Dopo anni di riflessioni e interminabili osservazioni sul campo (del nostro complicatissimo territorio) non abbiamo particolari dubbi nell’affermare che l’utopia più interessante e produttiva è proprio quella del riciclo. Non solo nel senso comune di quanto sia giusto, ecologico ed economicamente corretto riciclare materiali, risorse, paesaggi e quindi ovviamente anche edifici e città. Ma anche in quello architettonico, che ha sempre bisogno di accostare ambizioni estetiche alle convinzioni etiche e politiche. L’utopia che vogliamo proporre (e promuovere) è quindi quella che vede nella sovrapposizione dell’esistente che sopravvive e del nuovo che gli cresce dentro (intorno, sotto, sopra, nell’aria) la massima espressione progettuale possibile, l’astrazione/rappresentazione perfetta del nostro tempo, il vero Giano bifronte postmoderno. Il riciclo (preservation, retrofit, etc.) è l’architettura nuova (o almeno ne è una parte consistente e molto time-specific) e come ogni architettura nuova e utopica tende a irradiarsi ovunque, anche in regioni geo-economiche che non sembrerebbero aver bisogno immediato di questa strategia. Troviamo naturale imbatterci nelle icone del Recycle a New York (la High-Line) o a Parigi (Palais de Tokyo) ma cominciamo ad abituarci a ricicli spettacolari anche in Cina (la Glass Factory di Shenzen) e ascoltiamo con enorme interesse Toyo Ito argomentare in occasione delle Olimpiadi in Giappone in favore del “riciclo dei vecchi stadi” e contro l’ennesima performance dello studio di Zaha. Archistar vs archistar, la storia è fatta anche di grandi tradimenti.