Un’arte molto difficile
“Partecipazione” è una parola accogliente e allo stesso tempo sfuggente, come tutte le parole che denotano concetti apparentemente evidenti, e invece in buona parte equivoci. Riguardo a tutti i progetti che modificano il territorio il termine ci fa pensare subito a procedure di coinvolgimento a vario titolo del pubblico, come durante la formazione di piani urbanistici, o nella disposizione di osservatòri che si stanno diffondendo nel Paese in applicazione della Convenzione europea del paesaggio. Ma si fanno anche strada iniziative spontanee, che in genere sono motivate dall’interesse per temi specifici. In qualche caso riguardano scelte anche importanti del progetto, arrivando perfino a entrare in merito a poetiche e linguaggi. Nel bene e nel male questi processi sono degli specchi della nostra società, di vari gradi del suo immaginario fra sogno e potere, dei suoi vizi come della sua più alta capacità di speranza e di utopia. Le esperienze sono le più diverse e non potrebbe esserci maggiore errore che classificarle per tipi. Infatti nulla è più atipico del paesaggio contemporaneo, e nulla è più atipico del ruolo svolto dai destinatari di un’opera, proprio la partecipazione essendo un momento particolarmente vario e imprevedibile, soprattutto quando è più creativa.
Naturalmente partecipare, in quanto manifestazione maieutica di gruppi di soggetti a volte anche molto disomogenei, è un’arte molto difficile, può benissimo accadere che alcune esperienze funzionino male e capiti di respirare l’aria asfissiante di un condominio aggressivo e ostile, oppure che la partecipazione sia molto influenzata da poteri e contropoteri che la canalizzano, senza lasciare nulla al caso. Le aperture di dialogo, quando vi sono, sono condotte spesso con rituali senza rischi. Ma quando invece le istanze vengono dalla base ecco allora delle sorprese, capita sempre più spesso di essere illuminati da punti di vista che aprono scenari fertili e in qualche caso addirittura determinanti. La partecipazione è così connaturata alle esigenze di una democrazia moderna che la sua assenza in genere è dannosa, mentre, quando c’è, è un’opportunità che difficilmente limita l’autonomia del progetto e nemmeno è un ostacolo per la sua libera espressione, qualora arrivi a metterla in discussione. Semmai è il contrario: la rafforza.
È importante fare un passo indietro e ricordare che è con la critica dei CIAM alle tesi del Movimento moderno che il coinvolgimento del pubblico assume rilevanza come uno dei momenti più qualificanti nella concezione di un’opera o di un piano, oltre che per un’esigenza di impegno politico sul campo per una nuova sensibilità rispetto al valore della storia dei luoghi, dalla cultura materiale e di ogni altra manifestazione originale di pensiero che riguardi una concezione dell’habitat marcata dalla volontà di partecipare responsabilmente alla sua evoluzione. Cosa altro è stato il regionalismo critico se non questo? Quella fu un’esplosione di creatività che interruppe definitivamente una rappresentazione della realtà che per troppo tempo era stata ridotta secondo le ipotesi universali di un Olimpo veramente troppo stretto, di soli quattro grandissimi maestri. Nel 1970 Michelangelo Antonioni con l’immagine di Zabriskie Point dell’esplosione appunto della casa nel deserto fissa questo momento con una sequenza indimenticabile come il passaggio da un’epoca ad un’altra. La partecipazione non è solo un’istanza etica, ma anche estetica.
Oggi, mentre viviamo in un tempo che Patrice Goulet egli anni ottanta profeticamente già definiva “selvaggio e incerto”, lo stesso problema si ripresenta con nuove sfide se possibile più conflittuali di quelle della ricostruzione postbellica. Definirei questa attitudine come un’acquisizione in termini del tutto nuovi di una consapevolezza del paesaggio. Altri maestri, come Giancarlo De Carlo, Lucien e Simone Kroll, Renzo Piano, Roberto Burle Marx, Lawrence Halprin, pur così diversi fra loro, sono stati tutti interessati a un coinvolgimento attivo della creatività del pubblico nel progetto, fosse esso di architettura, di urbanistica, di paesaggio, con uno spettro critico molto ampio.
Le ragioni della crisi
Se la consapevolezza di un paesaggio si matura veramente solo quando diverse interpretazioni si confrontano e si compongono, cioè proprio attraverso un processo partecipativo, è un dialogo il nostro obiettivo, un passaggio chiave che è alla base di quel principio di convivenza civile che noi chiamiamo civitas, un’istituzione antica che ancora oggi è il sicuro riferimento di ogni istituzione democratica.
Da un livello di pura informazione a un livello consultorio di espressione di pareri, a una attiva interlocuzione con i momenti creativi di un progetto, la partecipazione può svolgere diversi ruoli, che bisogna valutare nelle situazioni specifiche. Come si intuisce da quanto detto fin qui, nella galassia del laboratorio sul paesaggio italiano un processo di coinvolgimento del pubblico sopporta male una eccessiva codificazione amministrativa. Se si sta superando la concezione di una partecipazione vista solo come un momento informativo, una presa d’atto di scelte già prese, le regole del consenso dettate dalle istituzioni rimangono nel maggior numero di casi a maglie piuttosto strette, anche se si aprono siti, portali, blog che rendono accessibili già in corso d’opera documenti che una volta sarebbe stato impensabile diffondere su una base di accesso così ampia. E qui fra le tendenze in atto si manifesta un controsenso, la fioritura di tecniche del reperimento di dati statistici a grande scala porta a ridurre la partecipazione a un indice di gradimento, un’audience della soddisfazione presunta degli utenti. È già un progresso rispetto alle procedure abituali di solo dieci anni fa, che ad esempio nei piani urbanistici vedevano la fase delle osservazioni come l’unico momento veramente aperto al pubblico (e quindi di solito doverosamente blindato), è un progresso ma nel quale nulla è lasciato al caso, evidentemente le opinioni del pubblico se non opportunamente canalizzate spaventano.
Non c’è dubbio che noi stiamo vivendo relativamente al paesaggio una fase di stallo, una crisi molto grave del paesaggio che non si tutela, non si gestisce, non si valorizza, non si rinnova, un’inadeguatezza che è altrettanto grave di quella dell’ambiente, perché entrambe offendono profondamente la qualità della nostra vita, molto di più di quanto la gente non si renda conto. Una delle caratteristiche della crisi è proprio il deficit di momenti partecipativi. La grande velocità e la dimensione dei fenomeni che in pochi anni hanno accompagnato il più grande movimento di urbanesimo conosciuto nella storia umana ha prodotto nelle popolazioni una crescente difficoltà nella capacità di avere un rapporto equilibrato con il proprio paesaggio, un’alienazione che si è tradotta in un distacco emotivo proprio a partire da deleghe sempre più astratte dei doveri e dei diritti civili più elementari.
L’anello mancante
Io credo però, e qui sta una differenza non banale dalle opinioni che raccolgo, che questa crisi del paesaggio non sia tanto uno degli effetti della crisi più generale – lo è anche in parte –, quanto invece ne sia una delle cause, e certamente non veniale. Sembra un gioco di parole, ma non è così. I rapporti che corrono fra paesaggio e cultura e fra paesaggio e lavoro sono condizioni che si influenzano a vicenda a tal punto che, con ogni buona probabilità, investire sul paesaggio è una misura che induce qualità ben oltre la fornitura di beni e servizi sia pure molto appetibili, è un obiettivo politico prioritario non solo di alta rilevanza culturale ma anche sociale e economica. Tutta l’economia del paesaggio andrebbe riscritta, orientando meglio le strategie della programmazione anche sugli effetti collaterali, che spesso pesano più degli effetti diretti. Questo argomento mi sembra ancora non abbastanza esplorato ma è certo che potrebbe avere sviluppi molto interessanti, perché potrebbero cambiare le abitudini di valutazione e di attuazione delle politiche d’intervento pubblico. Ne parlo in questa riflessione perché sono convinto che proprio la partecipazione sia l’anello mancante che farebbe la differenza, mettendo in una stessa sequenza di senso categorie di sostenibilità che riguardano problemi di solito valutati in modo separato: dall’estetica di un’opera alla sua compatibilità ambientale, alla sua prospettiva di uso, alla sua capacità di produrre lavoro e occupazione. Datemi un buon tavolo di concertazione e vi solleverò il mondo. L’impresa è degna di sforzi coraggiosi: guai a ridurne il significato, abbassarne l’ambizione, frustrarne la speranza.
Attori e autori, cinque paradossi
Il Laboratorio di Otranto di Renzo Piano, conviviale, interattivo, coinvolgente, è un momento che resta esemplare nei nostri ricordi, ma le condizioni del nostro lavoro oggi sono molto diverse. L’ubiquità, l’indipendenza, la flessibilità sono prerogative di un concetto di partecipazione di nuova generazione, che prende subito un rilievo strategico, a ogni prova si conferma una risorsa non surrogabile, troppo importante per essere confinata in un ruolo formale. Chiunque sul campo, attore o autore, sia impegnato in un processo progettuale, sa che la partecipazione è tanto più produttiva quanto più il gioco è libero e interattivo, quanto più appunto è attiva. In qualsiasi progetto di paesaggio, dal calice di un fiore a un complesso ambito metropolitano, la partecipazione dovrebbe essere una risorsa vitale per definizione. Sarebbe un errore considerarla un mezzo, perché è piuttosto un fine, è quel campo maieutico prezioso che, dall’ideazione alla realizzazione e oltre, dà linfa e sostiene le linee di indirizzo di un progetto, stabilendo con continui aggiustamenti di tiro un confronto dialettico che gradualmente si precisa fra pianificazione e sperimentazione, fra diagnosi e interpretazione del contesto, fra input locali e globali, fra sistemi di piccola e di grande scala. Termini questi che di solito sono invece posti in sequenze univoche: da un quadro diagnostico si procede a un piano interpretativo, senza rendersi conto che il primo in principio è sempre sfocato e per precisarsi ha necessità di essere orientato da ipotesi di sviluppo del secondo e, viceversa, queste a loro volta si verificano solo precisando meglio gli obiettivi delle analisi. Chiamerò paradossi dei modi di essere della partecipazione che ricorrono nella mia esperienza come elementi volta a volta molto diversi, ma ricorrenti.
Primo paradosso: quali soggetti
Nel tempo presente non sempre è chiaro quali siano i soggetti della partecipazione. A seconda dei temi, attori partecipi e responsabili possono essere volta a volta un consesso di più comunità vicine e lontane che condividono un’affinità per uno stesso paesaggio, o una singola comunità, o una rete, o una pluralità di individui. È bene cominciare da qui, pensare che nel tempo del web, della comunicazione, dell’immagine, dell’immateriale, il soggetto di un processo partecipativo si presenta molteplice e articolato, e potrebbe anche risultare così atipico rispetto alle nostre attese da essere difficilmente riconoscibile, perché spesso proviene da condizioni culturali, sociali, economiche fino ad ora non note, in qualche caso difficili o addirittura in sofferenza, abitante vittima di un habitat che ormai è molto diffuso di sprawl, con aspetti di squallore così insopportabili da rendere difficile da definire una progettualità del paesaggio.
Secondo paradosso: quali tecniche di comunicazione
Un secondo paradosso è generato dalle nuove tecniche della comunicazione, prima nemmeno immaginabili, ormai disponibili a prezzi accessibili su un mercato molto ampio, che tendono molto a assimilare ogni dato secondo una sua rilevanza statistica, così che sono sempre di più dei rilievi statistici che si sostituiscono alle domande della gente. Si presentano degli scenari diversi: soprattutto fra i giovani si manifestano delle esperienze molto creative, perché la crisi non consente loro di ripetere strade sterili già battute; nelle istituzioni invece la partecipazione è incentivata ma spesso rimane difensiva, una sorta di liturgia formale, nella quale ogni responsabilità è mantenuta impersonale e anonima, mediata e privata di contenuti, dove nessuno rischia, nessuno paga. Hardware e software sofisticati sono alla base della proliferazione di forum, di blog, di Facebook, di Twitter, ed è straordinaria l’efficacia delle nostre nuove protesi informatiche, smartphone palmari o ottici. Questo progresso spettacolare non sempre dà adito a un dialogo altrettanto “attivo”, masse di dati dialogano con altre masse, la volontà del pubblico si esprime per indicatori, né possiamo dire che questa improvvisa ricchezza di una mappa sempre più particolareggiata dell’immaginario del pubblico dia elementi per un dibattito più trasparente sulla cosa pubblica.
Terzo paradosso: quali rapporti fra pubblico e privato
Nel frattempo, terzo paradosso, nel governo del territorio il rapporto fra pubblico e privato sta cambiando profondamente. la capacità del pubblico di imprimere una direzione agli eventi è sempre più remota per una crescente debolezza di un rapporto attivo fra cittadini e rappresentanti eletti, che inizia proprio dalla gestione del territorio, e per l’assoluta mancanza di mezzi. l’unico modo di condurre la partita è un gioco di anticipo, una politica d’indirizzo e di incentivi e di progetti sperimentali che dreni una logica dominante che sempre più esplicitamente appare solo merceologica. La partecipazione assume allora un altro volto possibile, quello di una comunicazione molto interattiva: saper osservare, prevenire, prevedere, decentrare, e per contro ridurre al minimo norme astratte, vincoli opprimenti, prescrizioni coercitive. Del resto questa è l’idea di fondo della Convenzione europea del paesaggio: uno statuto giuridico che pone la gente al centro della scena è potenzialmente una forte novità, nei fatti questo ha funzionato soprattutto come una forte provocazione culturale, proprio perché ha stabilito attraverso un momento partecipativo una comunicazione diretta fra amministrazioni, forze della cultura, professioni, associazioni, ponendo i presupposti perché pianificazione e sperimentazione siano in un reciproco continuo intenso scambio. Il grande problema oggi è attuarla, cosa che chiede una profonda trasformazione del quadro programmatico e progettuale, bisogna cambiare strumenti, norme e metodi, più che le leggi, cambiare mentalità, prassi, approccio.
Quarto paradosso: quali comportamenti e quali statistiche
Se il nuovo ordinamento urbanistico ha fatto notevoli progressi, finalmente distinguendo momenti d’indirizzo e momenti attuativi, le nostre abitudini sembrano invece mantenere tutta la tradizionale rigidità di un sistema di scelte a cascata dal generale al particolare. Politici e progettisti, pochi, credono fortemente che la partecipazione non limiti, arricchisca la qualità del progetto, anche nelle poetiche e nel linguaggio. Invece i più ne parlano bene e ne pensano male, in fondo la temono perché la ritengono un’espressione di incompetenti, una perdita di tempo e una inutile mediazione del loro potere. Ma questa opposizione, così ancora romantica, è forse superata, fra committenti e utenti lo spazio di dialogo si articola modificando molto le modalità e le regole. Forme diverse di confronto, dalla televisione al web, subentrano con la capacità di moltiplicare i contatti ma con pericolose semplificazioni, alla discussione attorno a un tavolo si sostituiscono test e statistiche sempre più sofisticate. Non ha importanza quello che dite, ha importanza quello che si presume che voi pensiate, in base a una lettura parametrica che è una proiezione astratta di vostre manifestazioni, anche molto diverse fra loro. Da qui si affermano standard e classifiche, ad esempio di qualità della vita – cosa c’è di più partecipativo? –, senza che nessuno di noi si debba scomodare a dire una parola. Attenzione, queste classifiche non sono platoniche, ai punti corrispondono vantaggi, finanziamenti. Non è un caso che nelle classifiche della qualità della vita nelle città italiane, come quelle de Il Sole 24 ore, la partecipazione, come il paesaggio, sia una categoria assente, che si presume sia deducibile da altri indicatori, scelti perché misurabili.
Quinto paradosso: quale futuro possibile
Il punto di stallo e di caduta della partecipazione sembrerebbe essere in una crescente impermeabilità della società a analizzarsi criticamente, la nostra opinione è riportata in termini di audience, una pratica che nasce dalle tecniche pubblicitarie. Chi progetta il nostro futuro sono per lo più gruppi economici egemoni che in realtà si interessano e molto alla partecipazione, ma con una logica mutuata dalle indagini di mercato. Avete, ad esempio, sentito parlare di Behavio? E il nome di un’applicazione che fa parte degli investimenti multimilionari di Google sul futuro, è una startup nata all’interno del MIT Media Lab, che estrae in tempo reale le informazioni dal movimento degli utenti (gesti, posizioni, velocità) per prevederne i comportamenti. Il valore di questi dati deve essere alto, per muovere tutte queste intelligenze e capitali da brivido, sconosciuti ai bilanci dei nostri istituti di ricerca pubblici. La notizia mi ha molto colpito, fra i numerosi investimenti sul futuro quasi nessuno mi è comprensibile nella sua finalità, temo che dovrei trarne la conseguenza che forse sono io che non ho più un futuro. Ma mi colpisce anche per un suo significato, che in altri tempi avrei giudicato fantascientifico, ricordate Blade runner, o il personaggio dell’Imperatore di Asimov? Nel futuro, ci avvertono, potremmo trovare forme di governo che nella storia non sono mai state così dispotiche. È anche questa, a suo modo, la proiezione di un’idea di partecipazione, che è portata al suo estremo, raccogliere con la forza di un potente motore di ricerca, che magari sta nel Nevada, dati su ciò che alla gente piace, deducendoli da indicatori indiretti, ad esempio attraverso il linguaggio del nostro corpo. È il nostro corpo che parla, ecco una forma involontaria di partecipazione attiva che ci fa fare i conti con una realtà dove neppure più il termine “globale” sembrerebbe avere un senso.
Concludendo
La difesa, la gestione e la valorizzazione del paesaggio hanno tanto più senso quanto più si siano in grado di dare vita a progetti che esprimano la ricchezza di un dialogo ampio, libero, consapevole. Saper vedere e saper interpretare la nuova città del terzo millennio sarà possibile solo con valori etici, estetici e di conoscenza diversi da quelli abituali, cercando man mano che disponiamo di strumenti più efficaci di non dimenticare mai che il problema eterno al centro della questione è il libero arbitrio.
È con questa realtà magmatica, in rapidissima evoluzione, che dobbiamo fare i conti senza pregiudizi. Credo che sarebbe un errore sentire tutto ciò come una pura devianza catastrofica, io penso che si possano trovare in tutta questa energia che si scatena anche delle risorse vitali, dalle quali trarre delle intuizioni invece catartiche. Quello che è certo è che la nostra navigazione richiede di non abbassare mai la qualità del giudizio critico. Massima partecipazione e massima libertà espressiva non sono affatto in contraddizione fra loro, anzi, è nel loro confronto e nella loro sintesi che vi è una chiave essenziale di successo di un’opera di paesaggio. La questione, come al solito, è come incentivare cultura e consapevolezza nel rapporto fra la gente e un luogo, lavoro difficile e faticoso ma indispensabile per condurci a un nuovo patto condiviso come si conviene a una moderna democrazia.