Il Biscione è una parola. Naturalmente, come suggerisce Roland Barthes in Miti d’oggi, non è una parola qualsiasi, ma qualcosa cui servono particolari condizioni linguistiche per diventare mito. Il mito è un sistema di comunicazione, un messaggio, che non ha niente a che vedere con l’oggetto il concetto o l’idea, ma è piuttosto un modo di significare, una forma. Niente a che vedere quindi con lo spazio architettonico, l’ingegneria del cemento che ne ha generato le sagome sinuose e neanche con la politica sociale che ha guidato il progetto urbano di insediamento sulla collina di Forte Quezzi: il Biscione come qualsiasi oggetto del mondo può passare da un’esistenza chiusa, muta, a uno stato orale, aperto all’approvazione della società.
Allo stesso tempo il Biscione come mito non esprime un messaggio univoco o, meglio, ha espresso e continua ad esprime molteplici messaggi, a volte contraddittori, altre volte complementari. In quanto parola supera i confini fisici dell’oggetto architettonico da cui si origina, per diventare immagine portatrice di infiniti significati. Le tecniche di comunicazione e i linguaggi operano da sempre un riciclaggio del mito per significare nuovi contenuti, funzionali al messaggio che di volta in volta si vuole trasmettere. La parola non cambia, mentre cambiano i destinatari del mito e i significati che questi attribuiscono al segno, in questo caso al segno del manufatto architettonico.
È quindi un rischio tradurre un mito? Possiamo perdere parti di un discorso, smarrire importanti informazioni o, peggio ancora, disattendere e confutare i principi dell’autore, le ragioni storiche della sua nascita, scompaginando il corretto ordine di lettura delle tracce e delle fonti? Niente paura: il mito non è condizionato dalle leggi linguistiche di un testo qualsiasi, ma è piuttosto un metalinguaggio autonomo, del quale è sufficiente conoscere il segno globale per poter accedere ai suoi significati. La traduzione del mito come pratica progettuale è quindi una forma di rigenerazione semantica.
Questo volume raccoglie la testimonianza di un tentativo di traduzione collettiva, o piuttosto di risignificazione molteplice, del Mito Biscione, realizzata attraverso l’incontro casuale e contingente di docenti, ricercatori, studenti provenienti da sei Facoltà e Scuole di Architettura, distribuite sul territorio italiano; riuniti per cinque giorni nel mese di settembre 2013 presso il Dipartimento di Scienze per l’Architettura della Scuola Politecnica di Genova e poi sparpagliati nuovamente in altri luoghi, dove hanno riscritto nuove parole sulla parola originaria. Il risultato sono le tracce di quello che ognuno di noi ha trovato (non perso) durante il processo di traduzione. Ogni messaggio si è conformato al soggetto che lo ha prodotto, riducendo la sua portata collettiva fino ad identificarsi con l’individualità del proprio autore. La somma dei messaggi contribuisce a consolidare un nuovo significato il cui significante unico rimane il Biscione, che è segno e forma allo stesso tempo, senza essere mai, veramente, stato toccato dalla traduzione in corso.