Il termine “post-produzione” connota oggi sia i territori europei, dopo il fordismo e il post-fordismo si assiste alla “rinuncia” a produrre prodotti concreti, sia l’idea di progetto, progettare non è più sufficiente: a seguito della realizzazione di una o più opere servono interventi altri, altre sovra-scritture. Come nella prassi cinematografica, raramente la presa diretta esaurisce il momento di formalizzazione di un film: è necessario applicare un complesso di operazioni – raccolte appunto nel termine “post-produzione” – quali il doppiaggio, il montaggio, il missaggio che seguono la fase delle riprese e precedono la commercializzazione. Importare il termine “post-produzione” nel dizionario architettonico e urbanistico implica rivedere il processo progettuale alla luce di una sua estensione o di una rinnovata attenzione a tutto il suo arco di sviluppo.
Sostengono questa direzione il fallimento evidente di una mera associazione architettura e ciclo unico di sua definizione e la necessità, altrettanto chiara, di iniettare, spesso a posteriori attraverso un ciclo successivo, connotati culturali a quelle che appaiono sulla scena come banali operazioni speculative. L’estensione del progetto a fasi di revisione post, il moltiplicarsi delle strategie e il loro articolarsi in base alle diverse fasi di modificazione del “materiale”, l’appello a termini quali “curatela” – come possibile sostituto di “progetto” –, piuttosto che l’evidente necessità di ragionare sugli strumenti di produzione dell’architettura, della città, del territorio prima di definire nuove realtà sono segnali che convergono a disegnare un nuovo mondo, un mondo che probabilmente è già.
Post-produzioni
“Postproduzione” e “riciclaggio” s’incontrano nell’ammissione che il mero processo di produzione, di presa diretta non è sufficiente a dare senso al progetto. S’incontrano quindi in un territorio lessicale e procedurale comune a cicli di progettazione di varia natura, dinamiche fisiche e biologiche. L’inorganico e l’organico sono sospinti in condizioni di convivenza, come già raccontava il padiglione tedesco nella Biennale di Venezia del 2006 mettendo in mostra un mondo vegetale tenuto in vita artificialmente o, attuando un controcampo, una vita artificiale che si nutre di dinamiche ed energie naturali. “Riciclare” implica la moltiplicazione dell’utilizzo dell’oggetto, la sua aspirazione ad una sorta di ossessiva possibilità di recupero perenne attraverso la ripetizione di una sequenza fissa di eventi o l’istituzione di diversi processi. Se la produzione ex-novo è costretta a seguire un tracciato obbligato in cui i singoli materiali convergono alla definizione del prodotto finale, una successione di operazioni e passaggi che conduce l’insieme bruto dei materiali alla configurazione finale, ovvero all’affermazione dell’utilitas, le strategie di riciclaggio si attestano sulle diverse fasi, si declinano a mettere a nudo il processo stesso.
È possibile schematizzare il ciclo produttivo nei seguenti momenti: la pre-produzione che termina con la definizione delle materie prime necessarie all’attivazione del processo, la produzione che si conclude con la definizione del prodotto, l’utilizzo che si chiude con la dismissione dell’oggetto e infine lo stadio in cui ciò che resta del progetto versa in condizioni di abbandono. Upcycle, hypercycle, subcycle e from cradle to cradle sono solo alcune delle possibili procedure – su cui si concentra una bibliografia multidisciplinare – che ragionano su precise fasi del ciclo di vita del prodotto. L’architetto William McDonough e il chimico Michael Braungart dopo il fortunato libro Cradle to Cradle: Remaking the Way We Make Things (North Point Press, New York 2002) scrivono nel 2013 The Upcycle: Beyond Sustainability. Designing for Abundance (North Point Press, New York 2013) ribadendo così la necessità di riconfigurare gli strumenti e il lessico della trasformazione continua della materia.
L’upcycle sottende la costruzione di un nuovo ciclo di vita a partire dall’oggetto che ha concluso la sua precedente “missione”, quella che ne ha dettato la produzione, l’azione è quindi tesa a restituire un nuova qualità, un ulteriore senso a ciò che versa in condizioni di inutilizzo. L’hypercycle investe la fase di produzione e presuppone l’immissione nella stessa di uno o più cicli di vita, come sottolineato nel testo The Hypercycle: A principle of natural self-organization (di Eigen M. e Schuster P., Springer, Berlin 1979), la procedura nasce da principi di fisica prefigurando punti di contatto tra produzione e organizzazioni proprie alla natura. Il subcycle agisce nella fase di utilizzo, l’obiettivo non è il miglioramento delle capacità del materiale ma l’esplorazione delle possibilità date dal suo sotto-utilizzo per costruire diversi significati o nuove economie (si veda a questo proposito Wheelwright S. C., Managing New Product and Process Development, Simon and Schuster, New York 2010). Infine lo slogan di un possibile passaggio da culla a culla, dell’istituzione di un moto perpetuo del ciclo produttivo presupporrebbe un’ideale sconfitta dell’entropia, dispersione di energia sottesa alla modifica della materia. Molte altre azioni simili sono ipotizzabili a partire dai presupposti che il progetto investa il processo e il suo fluire, da qui si ha una sostanziale modifica del prodotto, e che città e territorio non possano evitare di restituire le conseguenze fisiche del processo stesso e delle sue alterazioni. Come recita il titolo, e non solo, del testo di Nicolas Borriaud Postproduction: Culture as Screenplay: How Art Reprograms the World (Sternberg Press, Berlin 2002) la questione oltrepassa i meri problemi di mercato, le risposte insistono su un’ulteriore compromissione: l’arte si fa vettore della produzione e trasmette dispositivi propri a meri passaggi logici e consequenziali.
Traiettorie
Nella letteratura tre traiettorie insistono sul solco della revisione dei processi: i paesaggi dell’abbandono, il riciclaggio dell’esistente e la città e il suo metabolismo. Queste tre tracce, spesso tangenti e a volte in parte coincidenti, mettono insieme le due nature del termine “post-produzione”: si guarda ai “rifiuti” presenti nei territori – spazi, architetture, infrastrutture inabitati, abbandonati, mai utilizzati – quali brandelli di senso che chiedono un ripensamento del progetto che li ha generati; gli stessi frammenti si offrono quale “materia prima” da riciclare; una nuova metafora biologica vorrebbe che la città sviluppasse una capacità di autorigenerazione, che il ciclo produttivo virtuosamente fosse un cerchio perfetto in cui lo scarto si autotrasforma in nuova vita. Le interpretazioni e le visioni non sono tutte convergenti: nel suo libro Wasting Aways Kevin Lynch narrava, con una sorta di favola nera dal sapore ballardiano, un mondo senza spazzatura in cui utilità perenne e pulizia si affermano quali nuove regole perentorie per la “gestione” e il disegno del mondo.
Il paesaggio letterario si articola sommariamente in due grandi campi: il primo strutturato negli anni settanta del secolo precedente, il secondo a ridosso della nuova crisi ecologica ed economica. Se i due tempi disegnano paesaggi simili – teorie da concetti nomadi e di ritorno, come testimoniato ad esempio dall’imbarazzante “somiglianza” tra le Colline di spazzatura per la città di pianura disegnate dagli Archizoom nel 1969 e il Landscape Waste descritto con strumenti digitali nel testo MetaCity Datatown pubblicato nel 1999 dal gruppo olandese MVRDV – le differenze restano sostanziali.
Una delle maggiori distanze tra i due paesaggi letterari e progettuali è l’assenza nel contemporaneo di immaginario, è l’incapacità di costruire nuovi mondi a partire dallo scarto, incapacità dettata dall’interpretazione sostanzialmente scientifica, tecnologica ed ecologica, del “nuovo materiale” con il quale si progetta e dal suo dilagare senza sosta, dalla sua concretezza che sembra addomesticare interpretazioni oltre il reale.
Il problema della scelta
Il paesaggio dell’abbandono ha prima intaccato nervi vitali della città quali i grandi insediamenti industriali, facendo però al tempo stesso presupporre modalità di produzione meno inquinanti, poi ancora i luoghi del lavoro sparsi nel territorio, ma qui non si è fermato: procede ora a nuove e vecchie abitazioni, attività commerciali, spazi d’uso quotidiano. Il paesaggio dell’abbandono sembra voler coincidere con il paesaggio ordinario, con quei luoghi che offrono le funzioni primarie della città: se fino a pochissimi anni fa le seconde case si trasformavano in luoghi per nuove realtà abitative o lavorative oggi sono solo e semplicemente in vendita, la città è in ferie non solo nei luoghi della vacanza, si tratta infatti di una vacanza congenita.
Il tutto annuncia una trasformazione radicale, che prescinde da possibili riprese economiche, appunto un nuovo mondo che forse è già, un mondo nel quale il progetto non coincide più e soltanto con il segno più, con un incremento di cubatura, ma, a monte, torna a coincidere con una scelta. Si tratta di scegliere cosa salvare, su cosa investire, da quale brandello partire per scrivere un’altra storia, diffusamente si tratta di indicare cosa togliere, cosa perdere. L’opera di Bas Jan Ader e i dipinti Founding ceremony e The Death of Marat di Yue Minijun – esposti, probabilmente non a caso, in contemporanea nel 2013 il primo al MAMbo di Bologna e le tele del pittore cinese alla Fondation Cartier di Parigi – investono sulla definizione di un’estetica della sparizione (all’Esthétique de la disparition Paul Virilio dedica un libro pubblicato nel 1989, Editions Galilées, Paris). Bas Jan Ader progetta e mette in atto scomparse, fino alla propria in mare (In search of the miraculous), concentrandosi in quasi tutta la propria produzione su assenze e sottrazioni. Yue Minijun ci offre la possibilità di guardare alla scena che narra la Storia senza i suoi principali protagonisti: Mao e Marat sono cancellati dalle tele originali, lo sfondo è chiamato a riorganizzarsi a partire dalla loro sparizione.
La scelta che attende il progetto potrebbe appunto non coincidere più e soltanto con incrementi di quantità ma con la sfida di affermarsi confermando o agendo attraverso demolizioni. Sembra paradossale ma l’assenza di Marat, del principale protagonista, libera il paesaggio. Il progetto è doppio: è decidere cosa cancellare, è offrire la propria presenza in forma di cavità.