I don’t intend to build in order to have clients;
I intend to have clients in order to build.
(Howard Roark in Ayn Rand, The Fountainhead)
Howard Roark, l’antieroe concepito da Ayn Rand, ispirato molto liberamente alla figura di Frank Lloyd Wright e interpretato magistralmente da Gary Cooper nell’omonimo film del 1949, rappresenta ancora oggi una delle metafore forse più significative della figura dell’autore e delle relative problematiche nell’architettura contemporanea. Idealista radicale e individualista fino alle estreme conseguenze, l’architetto protagonista di The Fountainhead non solo è disposto a rinunciare alla propria professione pur di non insozzarla con le pretese di volgari richiami storicistici, cui la società, il mondo della committenza e la stessa accademia paiono volerlo indurre, ma arriva fino all’atto estremo di distruggere con l’esplosivo un proprio edificio, il cui progetto è stato “tradito” in fase costruttiva; gesto nichilista e catartico, che se da un lato materializza icasticamente il totale e violento rifiuto di qualsivoglia compromesso, dall’altro diviene premessa per un finale sorprendentemente positivo, in cui l’architetto – vittorioso – dominerà romanticamente la scena osservando la città dall’alto del Wynand Building, finalmente ultimato seguendo fedelmente il proprio progetto.
L’architettura si è sempre inevitabilmente dovuta confrontare con la figura dell’autore, non soltanto in epoca moderna, laddove – come già rilevava Zevi – il ruolo delle personalità ha acquisito una funzione preminente nella critica e nella storiografia dei movimenti artistici1Cfr. B. Zevi, Architectura in nuce, Istituto per collaborazione culturale,Venezia-Roma 1960, p.108 ma anche più in generale in epoche più remote, al punto che in numerosi casi si è parlato di una “storia degli architetti”, parallela e nettamente separata dalla “storia dell’architettura”2Cfr. Ibid. e A. Mangiarotti et al., In nome dell’architettura, Jaka Book, Milano 1987, p. 21.. La figura dell’architetto/autore, pur con modalità differenti nelle diverse epoche, ha costantemente alimentato la propria riconoscibilità e la propria legittimazione, coltivando addirittura in alcuni casi una privilegiata autonomia, in qualche modo sopravvissuta – e anzi rafforzatasi – nei giorni nostri, con l’emersione, negli ultimi decenni, di una dimensione fortemente mediatica dell’architettura. Il fenomeno di progressiva affermazione individuale di coloro che sono stati sbrigativamente definiti “archistar” dalla vulgata mediatica, con gli inevitabili effetti di omologazione che esso ha indotto a livello globale sugli immaginari, sulle pratiche professionali e sulle prassi concorsuali, ha di fatto ampiamente alimentato il radicamento di una certa idea di architettura come disciplina essenzialmente legata alle intuizioni formali di figure uniche, sempre più spesso rappresentate come confinate nel campo della pura espressività artistica, identificate con linguaggi fortemente iconici e globalizzati e quasi vincolate alla reiterazione pedissequa dei propri stilemi3D. Ponzini, M. Nastasi, Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee, Allemandi, Torino-Londra- Venezia-New York 2011, pp. 17 e 20-21.. È una forma di rappresentazione dell’architettura, e soprattutto di celebrazione dei suoi protagonisti, che ha indubbiamente un notevole successo, che ne svincola spesso quasi del tutto gli esiti dal campo dell’oggettività e della falsificabilità e ne riconduce gli sviluppi ad una forte riaffermazione di autonomia tutta interna alla disciplina, la quale diviene in tal modo – con riferimento esplicito alle intuizioni di Maturana e Varela – sostanzialmente autopoietica 4P. Schumacher, The Autopoiesis of Architecture, Vol. I. A New Framework for Architecture, Vol. II A New Agenda for Architecture, John Wiley and Sons, Chichester, 2012. È da notare che lo stesso Schumacher è partner dello studio Zaha Hadid Architects, di una cioè tra le maggiori figure protagoniste dei recenti fenomeni di globalizzazione e spettacolarizzazione dell’architettura. Sul concetto di autopoiesi si veda: H. R. Maturana, F. J. Varela, Autopoiesis and Cognition. The Realization of the Living, Kluver-Reidel, Dordrecht 1980, (ed. or., Editorial Universitaria, Santiago 1972)., in grado cioè di riprodursi ed evolvere unicamente all’interno del proprio dominio specifico; ma è soprattutto un’interpretazione disimpegnata della pratica architettonica, vista come semplice conseguenza e non come strumento di costruzione del dibattito politico, con il quale il confronto aperto è di fatto programmaticamente rifiutato e le cui forme espressive sono ritenute sostanzialmente incompatibili rispetto a quelle dell’architettura stessa, la quale può semmai semplicemente aspirare a plasmarne in termini fisici gli esiti finali5Ibid., Vol. II, p. 448 e sg..
Ciò che colpisce però è che questa decisa riaffermazione della figura autoriale in architettura, a cui si è assistito a partire dall’ultimo scorcio del secolo scorso, nasca proprio in concomitanza con l’emergere di mutamenti di segno diametralmente opposto, quali i sempre maggiori impulsi alla frammentazione del processo progettuale o la più generale crisi dell’architettura come professione liberale6Cfr. C. Olmo, Architettura e Novecento, Donzelli, Roma 2010, pp. 84-85. . Già all’inizio degli anni Novanta infatti Dana Cuff, nella sua minuziosa ricostruzione delle dinamiche professionali, aveva messo in luce quanto la celebrazione della figura unica, quasi demiurgica, dell’architetto – ancora ampiamente consolidata e praticata nell’accademia e nelle organizzazioni professionali – fosse ormai del tutto illusoria e parecchio lontana dalla realtà della professione7D. Cuff, Architecture. The story of practice, MIT Press, Cambridge (MA) 1991, p. 77. . Quanto è ancora attuale – potremmo allora oggi chiederci – l’idea che il progetto di architettura sia un processo pienamente controllabile, nei suoi esiti formali, dal proprio “autore” attraverso l’autorevolezza della propria competenza tecnica? La moltiplicazione degli attori legati alle trasformazioni territoriali, la circolarità e la burocratizzazione dei processi decisionali, la crisi della rappresentanza politica e l’emersione di nuove forme di partecipazione civile descrivono oggi uno scenario applicativo in cui il sapere disciplinare dell’architettura si trova sempre più spesso ad intervenire in modo parziale, reindirizzando e correggendo, piuttosto che guidando saldamente i processi attuativi; in particolare nel momento in cui le tematiche emergenti dello sviluppo sostenibile, dell’ecologia, del riciclo ecc. si sovrappongono stabilmente alle istanze più tradizionali con nuove forme di razionalità e nuove retoriche di legittimazione, non di rado acriticamente accettate alla stregua di imprescindibili imperativi morali.
La facile tentazione della deriva tecnocratica
È significativo il fatto che sempre più spesso – nella letteratura scientifica e in quella divulgativa, nei bandi di concorso e nelle relazioni di progetto – le trattazioni relative alla trasformazioni della città o del territorio sentano l’esigenza di esporre l’elencazione di un certo numero di indicatori ambientali: tassi di consumo e di impermeabilizzazione del suolo, percentuale di popolazione urbana, ecc., l’elenco potrebbe essere lunghissimo e arrivare a parametri estremamente sofisticati, che nel loro complesso costituiscono una base di conoscenza straordinaria e oggi ormai indispensabile per chiunque operi o assuma decisioni sul territorio; ma accanto all’uso effettivamente scientifico di tali indicatori vi è spesso la sensazione che la continua tensione verso il dato quantitativo svolga oggi in qualche modo anche un ruolo più rassicurante di oggettivazione delle proprie argomentazioni e, forse, di parziale deresponsabilizzazione delle proprie scelte.
Un nuovo paradigma di sviluppo di portata epocale sta effettivamente investendo le società, le città, il territorio, i cicli produttivi, gli stessi stili di vita come mai prima d’ora era accaduto, e i concetti con cui esso viene veicolato (re-cycle, resilienza, smart city, ecc.) rappresentano l’esito dello sforzo di traduzione in termini misurabili e comunicabili dei limiti entro i quali possiamo ancora concepire i nostri modelli di sviluppo.
Le grandi linee strategiche della politica ambientale, così come gli accordi internazionali che da esse derivano, definiscono e ridefiniscono nel tempo obiettivi concreti da raggiungere e superare, parametri di soglia e indicatori fisici cui è delegato di fatto il ruolo di ipostatizzare e rendere in qualche modo misurabile e verificabile il progressivo avvicinamento collettivo a un “dover essere” via via più virtuoso; parametri, questi, che assumono al tempo stesso, nel concreto, caratteri sempre più prossimi a veri e propri indici di premialità, su cui innescare processi di competitività locale e su cui ridistribuire – in ultima analisi – future risorse e opportunità di sviluppo.
I processi produttivi, i sistemi infrastrutturali, il governo del territorio, i sistemi dei servizi, pressoché ogni sfera della società è oggi investita da un processo profondo e ineludibile di revisione del bilancio tra risorse impiegate, beni prodotti (materiali o immateriali) e scarti accumulati; una strada questa – in verità ancora in gran parte da compiere – che appare oggi più che mai necessaria.
Ma questa generale trasformazione, che interessa anche gli stessi statuti disciplinari, sta portando parallelamente, come effetto collaterale, ad una revisione dello stesso ruolo dei progettisti. Il ricorso costante alla quantificazione e alla parametrizzazione, il ruolo preminente della sostenibilità come paradigma oggettivante, le possibilità pressoché illimitate di incrocio e sovrapposizione delle banche dati informatizzate stanno gradualmente spostando il baricentro della qualità architettonica, dal controllo degli esiti fisici delle trasformazioni all’efficacia del governo dei relativi processi decisionali8Cfr. D. Ponzini, M. Nastasi, Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee, cit., pp. 16-17.. Fenomeno questo che assume una rilevanza particolare proprio con riferimento ai temi del riciclo, nel momento in cui – estendendone i confini dalla dimensione più ovvia dei beni mobili e delle relative filiere produttive a quella, propriamente architettonica, della città e del territorio – paiono emergere alcune significative problematiche, legate, in sintesi:
– alla qualità spaziale degli insediamenti: laddove si registra un progressivo allontanamento dalla dimensione morfologica dei fenomeni insediativi, a fronte di un’interpretazione sempre più astratta e quantitativa dei parametri e degli indicatori di qualità dell’insediamento;
– ai tessuti attivi della città e del territorio: laddove i temi del riciclo risultano nella maggior parte dei casi ancora declinati sulla tematica del semplice riuso e della patrimonializzazione e quasi mai su reali processi di rigenerazione profonda dei tessuti insediativi a partire dal capitale fisso territoriale;
– alla forme stesse della rappresentazione: laddove il ricorso ad altri linguaggi (della matematica, dell’informatica, ecc.) tendenzialmente molto più astratti – pratica frequente nella nostra disciplina, che spesso assume e metabolizza saperi e forme espressive altrui – pare non corrispondere in questo caso ad una vera ricerca linguistica, ed è forse in buona parte responsabile di una progressiva perdita di centralità delle questioni morfologiche all’interno della cultura progettuale legata a questi temi.
Quale figura di autore emerge dunque da questo quadro? Ovvero, in quali termini può essere oggi ridefinito disciplinarmente il rapporto tra una legittima aspirazione al carattere autoriale del progetto (tra la sua possibilità cioè di aderire ad un preciso disegno preordinato e riconducibile a soggetti definiti e delegati ad assumere decisioni) e la sua dimensione politica (la sua capacità cioè di diventare tavolo comune tra una moltitudine di attori e portatori di interessi, luogo della contrattazione ed esito di una stratificazione di posizioni più o meno formalizzate, ma il cui esito difficilmente è definibile a priori)?
Alcune questioni aperte intorno ad un ruolo ambiguo
Il quesito posto pare ruotare intorno a tre possibili condizioni che il progettista può assumere – autore, interprete o regista – ed ai relativi intrecci tra essi, i quali individuano nel loro complesso alcune problematiche aperte.
1. Autori o interpreti? L’autore non è esterno all’opera, ma vi svolge un ruolo al pari degli altri personaggi
In una famosa conferenza del 1968, destinata a destare parecchio scalpore, Roland Barthes profetizzava la “morte dell’autore”9 R. Barthes, La mort de l’auteur, in Le bruissement de la langue, Seuil, Paris 1984.; una posizione radicale che nasceva principalmente da un impianto ideologico (l’autore come espressione della cultura borghese occidentale, nata con il Razionalismo e l’Empirismo). Nell’invito a sostituire la figura dell’autore (écrivain) con quella del copista (scripteur)10 Ibid., p. 66. Barthes rivendicava una necessaria “liberazione” del testo dalla presenza autoriale e dai limiti interpretativi che essa impone, ma soprattutto si inseriva nel filone di una ricerca più ampia, volta da più parti a svincolare la consistenza dell’opera dalle intenzioni stesse del suo ideatore (pensiamo ad esempio al Livre di Mallarmé) e di “aprirne” indefinitamente il campo delle possibili interpretazioni (è di soli pochi anni precedenti il saggio di Umberto Eco sull’opera aperta).
Ma la posizione forse più interessante in questo senso è quella, apparentemente analoga ma in realtà distante negli esiti, che solo l’anno successivo Michel Foucault espone nella conferenza Qu’est-ce qu’un auteur?11M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur? in Dits et écrits, Vol. I, Gallimard, Paris 1984., nella quale propone di sostituire alla figura dell’autore, ambigua perché esterna all’opera, quella della “funzione-autore”12Ibid., p. 798. , emergente “archeologicamente” dalle formazioni discorsive e in grado di restituire un complesso più articolato di fenomeni, ideologicamente non neutrali, che sono responsabili del prodotto testuale.
La figura autoriale che ne discende – deceduta e sostituita da un semplice scrivano, oppure oggettivata nella funzione-autore – non è più esterna e precedente, ma interna e immanente all’opera e vi prende parte come un qualsiasi personaggio («che importa chi parla?» è la citazione di Beckett che apre il testo di Foucault); è in un certo senso, tornando al nostro campo, una forma di autorialità contrattata, che utilizza i propri strumenti per orientare dall’interno il percorso, ma accetta di venire a patti con scostamenti imprevisti dalla direzione iniziale, e che – soprattutto – si pone come strumento di mediazione culturale. È ancora il noto passaggio da “legislatori” a “interpreti”, di cui ha parlato ampiamente in seguito Bauman13Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a intepreti, Bollati Boringhieri, Torino 2007 (ed. or. Cornell University Press, New York 1987)., ma a differenza di quanto da lui proposto non si tratta necessariamente di una “decadenza”; gli intellettuali mettono la propria competenza al servizio della comunicazione tra soggetti sovrani ed accettano che l’esito del progetto possa essere non necessariamente un “oggetto” fisico o uno spazio interamente rispondente all’immagine iniziale, ma piuttosto un processo aperto negli esiti, di cui occorre imparare a riconoscere e indirizzare le forme e i rituali collettivi14Cfr. R. Sennett, The Craftsman, Yale University Press, New Haven & London 2008, p. 12..
2. Autori e registi. Il progetto di Re-cycle si svolge in una dimensione prevalentemente narrativa
Una seconda questione, strettamente connessa alla figura dell’autore, riguarda le forme espressive proprie del linguaggio del Re-cycle. Il processo di riciclo, nel recuperare scarti e lacerti di altri cicli di vita, comporta inevitabilmente una ricodifica semantica degli elementi riciclati. Lo stesso oggetto, nel passare da un ciclo di vita all’altro, muta di significato e si ripropone con una veste inedita il cui significato discende, più che dalle caratteristiche stesse del singolo elemento, dalle modalità di ricombinazione con le restanti parti del progetto. È ciò che conosciamo sin dall’antichità, con il reimpiego sistematico degli elementi architettonici di spoglio, e che l’Arte Povera ha poi trasformato in istanza poetica. Esiste cioè una intrinseca dimensione narrativa del progetto di riciclo ove centrale diviene l’operazione di montaggio, nel senso cinematografico del termine, ovvero il récit come è stato definito da Yves Lavandier15Y. Lavandier, La Dramaturgie: les mécanismes du récit, Le Clown et l’Enfant, Cergy 1994.: in opposizione alla storia, che è cronologica e oggettiva (o almeno tende ad esserlo), il racconto è arbitrario e dichiaratamente soggettivo; molteplici racconti possono essere originati da una medesima storia e se lo storytelling diviene in questo senso una reale operazione progettuale, capace di attivare processi di trasformazione attraverso la risignificazione di luoghi e oggetti, il progettista si identifica in un certo senso con la figura di un narratore/regista, in grado di imbastire trame mutevoli a partire da un “canovaccio” dato.
3. La perdita dell’“aura”. Il progetto non è una reliquia, l’architetto non è un liturgista
Se il riciclo significa prioritariamente rimettere in gioco e risignificare l’esistente allora chi è effettivamente l’autore ed entro quali limiti si concretizza il suo ruolo? Il processo di continuo recupero dell’esistente, oltre che alla dimensione narrativa, è legato ai concetti di autenticità e di proprietà intellettuale. Da questo punto di vista il Re-cycle diviene per certi versi simile ad un processo open-source, in cui il libero accesso alle sorgenti e la possibilità di manipolarle a piacimento relativizza di fatto la figura dell’autore, ricollocandolo all’interno di una comunità autoriale. La produzione di contenuti diviene allora simile in certi casi ad un esercizio di scrittura collettiva – come avveniva nelle round robin stories di fine ‘800 o negli esperimenti letterari futuristi – in altri ad un’operazione di interpolazione, come è accaduto innumerevoli volte in campo musicale. L’autenticità, posto che abbia ancora senso definirla come tale, non riveste più alcun valore, come già proclamavano le opere polemiche di Piero Manzoni; si ridimensiona parallelamente il rischio di estetizzazione e sacralizzazione dell’oggetto e di celebrazione della rovina in quanto tale. Illuminante diviene allora in proposito ciò che Walter Benjamin definì come la «perdita dell’aura»: è nel momento in cui viene meno il valore dell’autenticità che l’arte ritrova il proprio fondamento politico16Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 1998, p. 14 (ed. or. Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1955 ). .
I temi qui rapidamente evocati individuano in maniera molto parziale solo alcune delle principali problematiche connesse al rapporto tra autorialità e politica, e intendono soprattutto fornire argomenti per una discussione più ampia. A provvisoria conclusione di queste brevi note possiamo solo aggiungere che l’architettura è – per propria natura – intrinsecamente legata alla figura dell’autore, nel senso che non può prescindere (né dovrebbe farlo, probabilmente) da una legittima ambizione ad una precisa volontà di forma, che trova nell’intenzionalità autoriale il proprio naturale riferimento. La condizione contemporanea della pratica architettonica però, soprattutto con riferimento ai temi emergenti del riciclo, della sostenibilità e delle relative retoriche, impone una rinegoziazione dei termini in cui opera la figura dell’architetto. Il progetto, pensato idealisticamente nei termini di una profezia che si autoavvera, non risulta probabilmente più attuale e occorre ridefinire i termini di un’autorialità di forma differente, in grado di esercitarsi non solo sulle forme degli oggetti e degli spazi fisici, ma anche sulle forme dei dialoghi e dei processi decisionali, che su tali oggetti e spazi hanno un’influenza centrale.
References
1. | ↑ | Cfr. B. Zevi, Architectura in nuce, Istituto per collaborazione culturale,Venezia-Roma 1960, p.108 |
2. | ↑ | Cfr. Ibid. e A. Mangiarotti et al., In nome dell’architettura, Jaka Book, Milano 1987, p. 21. |
3. | ↑ | D. Ponzini, M. Nastasi, Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee, Allemandi, Torino-Londra- Venezia-New York 2011, pp. 17 e 20-21. |
4. | ↑ | P. Schumacher, The Autopoiesis of Architecture, Vol. I. A New Framework for Architecture, Vol. II A New Agenda for Architecture, John Wiley and Sons, Chichester, 2012. È da notare che lo stesso Schumacher è partner dello studio Zaha Hadid Architects, di una cioè tra le maggiori figure protagoniste dei recenti fenomeni di globalizzazione e spettacolarizzazione dell’architettura. Sul concetto di autopoiesi si veda: H. R. Maturana, F. J. Varela, Autopoiesis and Cognition. The Realization of the Living, Kluver-Reidel, Dordrecht 1980, (ed. or., Editorial Universitaria, Santiago 1972). |
5. | ↑ | Ibid., Vol. II, p. 448 e sg. |
6. | ↑ | Cfr. C. Olmo, Architettura e Novecento, Donzelli, Roma 2010, pp. 84-85. |
7. | ↑ | D. Cuff, Architecture. The story of practice, MIT Press, Cambridge (MA) 1991, p. 77. |
8. | ↑ | Cfr. D. Ponzini, M. Nastasi, Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee, cit., pp. 16-17. |
9. | ↑ | R. Barthes, La mort de l’auteur, in Le bruissement de la langue, Seuil, Paris 1984. |
10. | ↑ | Ibid., p. 66. |
11. | ↑ | M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur? in Dits et écrits, Vol. I, Gallimard, Paris 1984. |
12. | ↑ | Ibid., p. 798. |
13. | ↑ | Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a intepreti, Bollati Boringhieri, Torino 2007 (ed. or. Cornell University Press, New York 1987). |
14. | ↑ | Cfr. R. Sennett, The Craftsman, Yale University Press, New Haven & London 2008, p. 12. |
15. | ↑ | Y. Lavandier, La Dramaturgie: les mécanismes du récit, Le Clown et l’Enfant, Cergy 1994. |
16. | ↑ | Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 1998, p. 14 (ed. or. Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1955 ). |